(23 ottobre – 28 ottobre 2019)
23 ottobre
Siamo qui per la Biennale d’arte di Venezia: viaggio in treno comodissimo, spesa intorno a casa e giro in tondo passando per San Marco. Mi mancava Venezia di notte, incantevole
24 ottobre
May You Live in Interesting Time
Questo è il titolo della 58° Biennale di Venezia 2019, curata da Ralph Rugoff. Già il titolo ci mette in condizione di farci delle domande: vogliamo tradurlo letteralmente, augurandoci di vivere in tempi interessanti (non dimentichiamo che siamo in Italia), oppure dobbiamo interpretarlo secondo il proverbio cinese, risultato in realtà un falso, ovvero che per “interesting time” si intende un tempo burrascoso e preoccupante?
Dopo il primo giorno e la visita all’Arsenale (e l’ascolto di numerose spiegazioni) mi sento di dire che entrambe le scelte sono valide.
Gli artisti scelti (tutti viventi, e con opere create dopo il 2010) non danno risposte, ma insinuano dubbi e domande nella mente di chi osserva, libero di interpretare quello che vede secondo la sua personale esperienza e sensibilità. Più domande che risposte, quindi, più curiosità che spiegazioni. Il tutto con la freschezza della giovinezza.
Ogni artista è presente con due opere, spesso molto diverse tra loro, e questa scelta mi è sembrata subito molto giusta, ho sempre pensato che nessuno potesse essere riconoscibile con una sola opportunità.
Un filo conduttore si può trovare nei temi ambientale e sociale, molto presenti pur sotto vesti inaspettate, e nel concetto di “fake news”, la falsità nella diffusione delle notizie che sembra un controsenso in un’epoca in cui le notizie sono così fruibili. Altrettanto alto è l’interesse per le minoranze deboli, di qualunque tipo.
Prima di cominciare, qualche numero: 79 artisti provenienti da tutti i cinque continenti; di questi, 13 arrivano da New York, 12 da Berlino e 7 da Los Angeles.
Ci troviamo all’Arsenale, quest’anno eletto come sito principale della Biennale, e l’opera che apre è Double Elvis di George Condo. L’autore è un grande ammiratore di Andy Warhol, e lo celebra con la citazione del ritratto di Elvis fatto nel pieno della sua bellezza. Oggi qualcuno insinua che Elvis Presley non sia morto davvero, che quella morte fosse una fake news, ma Condo ci ricorda come sarebbe brutto e vecchio Elvis, oggi, se così fosse, ben lontano dall’Elvis-the-pelvis di Warhol. Double Elvis
Si continua con le foto piene di calore di Soham Gupta (Angst) e con le architetture incompiute, ma perfette, di Anthony Hernandez (Pictures for Rome)
Christian Marclay ci fa vedere un video che ingloba, in formato telescopico, “48 War Movies” con la loro colonna sonora, travolgendoci in una cacofonia ansiogena.
Tavares Strachan, artista delle Bahamas, ricorda la figura di Ronald Henry Lawrence jr, un astronauta americano nero, morto in un incidente spaziale, e immediatamente dimenticato per motivi razziali. ENOCH
Bellissima l’installazione di Jesse Darling, che ben spiega i problemi della disabilità. March of the Valedictorians
Shilpa Gupta, indiana, ci fa immergere nella poesia recitata da decine di microfoni, dove i testi sono infilzati, imprigionati su picche di metallo. Ma niente può imprigionare la poesia. For, in your tongue, I cannot fit
Incontriamo la prima installazione del più giovane artista presente in Biennale, Augustas Serapinas, lituano. Le sue sedie di avvistamento, distribuite lungo tutto il percorso, rendono evidente il bisogno di una figura alta, che controlli per la sicurezza delle persone. Chairs for the Invigilators
Teresa Margolles, messicana, anatomopatologa di professione, ha meritato una “menzione speciale” per la sua denuncia delle tante donne, giovanissime, che in Messico spariscono senza lasciare traccia, e vengono ritrovate senza vita, dopo strupri e torture.
Bellissimi e regali sono i ritratti di Nijdek Akunyli Crosby, che ci conducono alla monumentale figura che simula la posizione “brace” sull’aereo: a dispetto della sua imponenza, denuncia la nostra fragilità.
Interessantissima è la finta spiaggia tropicale della cinese Nabuqi, che rende lampante come noi occidentali, e italiani, maestri del bello e dell’armonico, ci siamo lasciati sopraffare dalla bruttezza, dall’approssimazione delle scopiazzature cinesi.
Una risposta arriva dalla bellissima Martine Gutierrez, unico essere vivente all’interno delle sue installazioni fotografate e abitate da manichini, perfetti ma finti.
La svizzera Carol Bove propone una scultura che rivisita la figura del cardinale di Manzù: qui il personaggio abbraccia una figura “diversa”, a richiamo dei tanti diversi non accettati
Nicole Eisenman, belga, omosessuale, con le sue scuture racconta la sua difficoltà a far accettare la sua natura, in un mondo dove ognuno ha un ruolo, ma ognuno nasconde una bestia pronta ad allontanare chi non si adegua
Il tedesco Hito Steyerl ci annuncia “This is the future”: in un mondo dove non c’è quasi attenzione ai problemi ambientali, l’uomo si limita a osservare e semplicemente spostare il problema, senza occuparsi di risolverlo. Una prospettiva terrificante.
Christine e Margaret Wertheim ci regalano un “acquario” dove i coralli e le attinie sono lavorate all’uncinetto, con una tecnica che ingloba geometria non-euclidea, ecologia marina, attivismo ambientale, artigianato femminile.
Non posso non citare il palestinese Rula Halawani e le sue immagini del muro di separazione in Israele, o le belle tele al femminile di Julie Mehretu, oltre che la nigeriana Otobong Nkanga che propone una base in marmo attraversata da un “fiume” in vetro che, da un certo punto in poi, cambia colore per l’inquinamento.
Belli gli arazzi e le ceramiche di Ulrike Muller, articolata ma ricca di significato l’installazione del cipriota Haris Epaminonda. Le catene di Yu Ji sembrano colare caramello, ed è di forte denuncia, anche positiva, la serie fotografica di Rosemarie Trockel.
Alexandra Bircken ci porta a riflettere sul ruolo attuale della donna, in bilico tra il non potere e il non volere fare le cose.
Anthea Hamilton ha creato un angolo della Scozia rivestito in tartan per raccontare la storia degli schiavi giamaicani “importati” dallo United Kingdom.
Arthur Jafa denuncia le condizioni degli schiavi negli Usa portando gigantesche ruote di trattore avvolte nelle catene
Lara Favaretto propone blocchi di cemento che ancora portano la sua impronta del omento in cui, poco prima che il cemento cominciasse a solidificarsi, l’artista vi si era immersa: un altro gesto femminile/femminista per dimostrare la prigione nella quale noi donne spesso ci immergiamo da sole, per poi fuggirne malamente, magari all’ultimo momento.
La fantastica ucraina Zhanna Kadyrova lavora i resti del cemento industriale dismesso per farne “alimenti” da proporre in un immaginario banco del mercato.
Il Leone d’Oro alla carriera è stato conferito a Jimmie Durham, indiano pellerossa, per la sua costante denuncia delle condizioni di inferiorità in cui viene costretto il suo popolo.
La visita continua con Barca Nostra, proposta da Christoph Buchel: si tratta di una vera barca affondata nel 2015 con a bordo oltre 800 migranti, molti dei quali imprigionati nella stiva. La barca è stata esposta in modo da vedere chiaramente gli squarci causati dall’impatto sugli scogli, e il taglio fatto successivamente dai vigili del fuoco per estrarre i miseri resti degli annegati.
Alle Gaggiandre, opera meravigliosa del Sansovino, ondeggia appesa un’installazione di Tomas Saraceno, e da lì entriamo nel padiglione Italia, il labirinto.
Milovan Farronato ha raccolto le opere di Enrico David, Chiara Fumai e Liliana Moro con il titolo “Nè altra, nè questa, la sfida del labirinto” (non dimentichiamo che Venezia stessa è un bel labirinto) e le ha esposte all’interno di una struttura dove i tre artisti spesso dialogano tra loro, oppure si propongono singolarmente con interventi sia diretti che nell’architettura provvisoria della struttura, utile a far passare luci e ombre dignificative. Il visitatore è visto nelle diverse accezioni di chi è attento e partecipe (all’arte, al mondo intorno …), chi si fa scivolare tutto addosso e non conosce cosa ha intorno, chi è solo un guscio vuoto.
La sintesi di tuttto questo è ben spiegata dalle parole che ci accolgono: “Indugiate e non abbiate paura. Non esiste il perdersi, ma solo il tornare sui propri passi, ed è legittimo: regredire non significa peggiorare. Godete il senso di un tempo dilatato e non abbiate ansia di dover vedere tutto. Ogni strada si ricongiunge a un’altra, ogni scelta è giusta, non ne esiste una sbagliata. Lo spazio è generoso, offre ossigeno, non è soffocante: si apre, non si chiude. Forse a un certo punto potreste persino trovare voi stessi, ma se sarete più fortunati, invece, da una breccia nel muro o sotto l’orlo di un tendaggio che non tocca il pavimento potreste addirittura incontrare qualcun altro che vi distragga, per un momento, da voi, stessi e vi faccia ancora una volta cambiar strada, distogliendovi da quella ricerca infinita di assoluti introvabili, finalmente interrotta da un’affezione improvvisa o una simpatia spontanea trovati dietro un angolo, o nel lampo di un riflesso”
La giornata si chiude con le mani pacificamente intrecciate di Lorenzo Quinn.
25 ottobre
Il Conservatorio di Venezia ha sede in Palazzo Pisani, dietro Campo S. Stefano. Il palazzo è stato costruito nel 1600, su parziale progetto del Sansovino.
Qui è allestito un evento collaterale di Biennale, la mostra proposta dal gruppo Parasol Unit intotolata The Spark is You.
Parasol Unit è una fondazione per l’arte contemporanea che ha sede a Londra, ma che ospita solo artisti iraniani usciti dal loro Paese, con l’obiettivo di creare un ponte tra le diverse culture.
Il fascino delle opere proposte è grande, in quanto emerge un confronto continuo tra tradizione orientale e occidentale, tra psiche e pratica quotidiana, tra le tre religioni monoteiste, tutte alla ricerca della “verità”, e significativamente si conclude con la presentazione di tratti spontanei fatti da una penna quando viene provata, a testimonianza che certi gesti (e molti altri) sono comuni a tutti gli uomini. C’è una sola razza, quella umana.
Attraversiamo il ponte dell’Accademia per due brevi visite. La prima è in Palazzo Cavanis, ed è dedicata a Pino Pascali, artista visionario creatore di numerose campagne pubblicitarie degli anni ’60 del secolo scorso, talmente illuminato da risultare efficace ancora oggi. All’artista, morto prematuramente nel 1969, è stata dedicata una fondazione con sede a Polignano a Mare, paese di origine, e dove sono conservati filmati ancora inediti. L’artista è proposto anche con fotografie e installazioni che dimostrano la sua grande voglia di rappresentare la realtà.
Poco lontano, la chiesa Santa Maria della Visitazione ospita “The Death of James Lee Byars”. Anche se l’artista è, purtroppo, davvero scomparso, l’opera ha ancora l’aspetto della performance: un gigantesco cubo aperto su un lato – per vederne l’interno – ospita il sepolcro dell’artista.Il tutto è foderato da sottili foglie d’oro che vibrano all’aria, suggerendo l’idea di una presenza spirituale anche dopo la morte fisica.
L’occasione è interessante anche per osservare il bellissimo soffitto a cassettoni della chiesa.
Il pomeriggio è interamente dedicato alla Solomon R. Guggenheim Foundation e, in particolare, alla stupenda mostra dedicata a Peggy, L’Ultima Dogaressa. La prima parte si svolge tra gli interni e il giardino di quella che fu l’abitazione di Peggy, dove ammiriamo opere della collezione classica: opere di inestimabile valore che spaziano da Picasso a De Chirico, da Duchamp a Calder, da Boccioni a Mondrian …
Ma strordinario è il viaggio nelle scelte più sentite di Peggy Guggenheim, capace di dare accoglienza e valore a tanti artisti riconosciuti poi come dei veri geni dell’arte, che lei ha aiutato, curato, sostenuto finchè ha potuto, e dei quali ha raccolto lavori di grande intensità, oltre che di valore. Una donna eccezionale, oggi sepolta nel suo giardino, vicino ai suoi amati cagnolini.
26 ottobre
Un’ora e mezza di coda in campo della Celestia per vedere il vincitore del leone d’Oro 2019: il Padiglione della Lituania. Appoggiati a una balaustra, come in un teatro vittoriano, gli spettatori osservano dall’alto la rappresentazione di un gruppo di persone su una spiaggia. L’interpretazione è naturalissima, così come l’ambientazione, e gli “attori” interpretano i bagnanti cantando musiche della tradizione lituane sulle quali sono stati adattati testi che denunciano le condizioni critiche del nostro Pianeta. Il coinvolgimento è totale, ci si sente come se si fosse in mezzo ai bagnanti, si vorrebbe essere con loro, e solo dopo ci si accorge di quello che sta succedendo: mai come su una spiaggia ci sentiamo liberi, indifferenti agli altri e a tutto. In realtà siamo così sempre. Forse abbiamo imparato a non buttare le cartacce per terra o le bottiglie di plastica in mare, ma verso i veri problemi della Terra, per i quali ci vorrebbe un vero cambiamento nelle nostre abitudini, continuiamo a ostentare grande indifferenza.
Visti gli obiettivi di questa Biennale, direi un Leone d’Oro ben meritato.
La giornata prosegue alla Fondazione Prada, in Ca’ Corner della Regina, dove Germano Celant, e la vedova dell’autore, propongono un viaggio nell’opera di Jannis Kounellis, un vero gesto di amore verso l’artista. Kounellis, greco di nascita ma italiano per preparazione e pratica, ha saputo interpretare con forza gli ultimi decenni del XX secolo, così diversi uno dall’altro: dopo la rivoluzione degli ultimi anni ’60 si è passati agli anni di piombo, e poi all’edonisno reganiano degli anni ’80. Kounellis, utilizzando materiali poverissimi, spesso di recupero, ha saputo dare identità visiva a questi periodi così diversi. La parola “Giallo” dove il colore giallo non compare nemmeno in un puntino, la sfilata di abiti e scarpe usate, tristemente attuale, la rosa, ma nera, e la margherita che si accende, i materiali di recupero da buttare, la parete in foglia d’oro, citazione della classicità, messa in discussione dalla tavolozza ormai inutile, gli armadi appesi a immagine di un passato che non siamo sempre capaci di guardare. Kounellis mette decisamente in discussione la pittura come arte ricca di senso, e preferisce proporre una “non-tela” di sassi, una porta murata che chiude lo spazio architettonico, chiusura simbolica alle dinamiche del proprio tempo.
Visitare la mostra di Kounellis, così ricca, ci fa entrare nello spirito di una persona che, pur nell’incertezza di una vita di artista, ha mantenuto sempre una grande fiducia nella forza dell’uomo, che anche nei momenti più difficili non si arrende mai del tutto.
Dalla Fondazione Prada andiamo a Punta della Dogana, per visitare Luogo e Segni. Il luogo è quello, dove domina la collezione di Pinault. I segni sono quelli dei numerosi artisti che, condotti da altrettanti curatori, hanno proposto le loro opere in questi spazi. Ma “Luogo e segni” è anche il titolo di un quadro di Carol Rama, qui presente.
Comincia Felix Gonzales Tores con la sua tenda bianca e rossa, ideali globuli sanguigni che rappresentano la tragedia dell’AIDS, la malattia che ha falcidiato tante persone negli anni ’80 e ’90, tra cui lo stesso autore.
Roni Horn è presente con la seri White Dickinson, barre che portano incisi i versi della poetessa e, in una stanza tutta per lei, con Well and Truly, vasche rotonde in vetro che simulano la presenza dell’acqua, senza che questa ci sia veramente
Agnes Martin propone i suoi precisissimi quadretti fatti a mano libera. Ann Veronica Janssens “scolpisce” una figura bidimensionale, Cerith Wyn Evans propone un lampadario di Murano, bellissimo, le cui lampadine recitano poesie con l’alfaberìto Morse.
Le sedie di Tatiana Trouvé hanno il cuscino in marmo, le fotografie di Berenice Abbott dialogano con le immagini realizzate da Liz Deschenes. Philippe Parreno ci porta in casa di Marilyn Monroe, dove scopriremo che, forse, l’attrice non ha mai avuto una vita sia, perchè ha sempre vissuto sul set.
Nina Canell copre il pavimento di pozze d’acqua, quasi a proporre una Venezia scomposta, Alessandro Piangiamore propone i suoi mattoni semplicemente lavorati dal vento e dagli elementi naturali.
Lala Rukh è indiana e scrive su carta carbone, nella speranza che i suoi insegnamenti possano un giorno raggiungere tutte le donne del suo Paese.
Stephanie Saade dimostra, con dei semplici pezzi di legno, che ben poco ci distingue gli uni dagli altri, che siamo tutti uguali.
Trisha Donnelly ci mostra, in un breve filmato, un gruppo di vasi che si trasfigura in continuazione, per i quali non propone nessuna spiegazione: sta a noi osservatori leggervi quello che sentiamo più vicino.
Lee Lozano è presente con una tela dai segni luminosi, scintillanti: Sturtevant rilegge le tende di Feliz Gonzales Torres e, attraverso fasci di lampadine accese, rende omaggio ai malati di AIDS che non hanno superato la malattia.
Etel Adnan scrive ossessivamente la parola Allah, ma lo fa con tratti disinvolti e colorati, tanto da rendere la parola quasi una musica priva di senso, in realtà facendola corrispondere a bombe lanciate su Beirut.
La mostra si chiude con il “Gelsomino notturno” di Hicham Berrada. L’artista, di origine marocchina, si occupa del Museo Yves Saint Laurent a Marrakesh, e propone qui una serie di piante visibilmente malate, chiuse in teche nere che sembrano volerne diventare le tombe. Un’altra denuncia ai problemi ambientali di cui dovremmo preoccuparci con urgenza.
La serata finisce in compagnia di Nicoletta e Fabio, che ho visto con enorme gioia, davanti a un buon bicchiere di vino
27 ottobre
Ultimo giorno dedicato a Venezia, e lo dedichiamo alla Biennale Giardini. Se la sede Arsenale è affascinante in quanto si può immaginare il tempo in cui, sotto quelle volte altissime, venivano costruite le gloriose navi della Repubblica di Venezia, i Giardini offrono un’ambientazione molto attraente, in un ambiente ricco di verde e affacciato sull’acqua.
Oggi a Venezia c’è anche la faticosissima Maratona: massima ammirazione per chi si muove su e giù per i ponti.
Appena entrati ai Giardini osserviamo il boohshop ufficiale, dove si trovano le pubblicazioni relative alla storia di tutte le Biennali, e incontriamo subito la prima opera, Thinking Heads di Lara Favaretto. Una risposta leggera e impalpabile ai suoi pesantissimi Momentary Monuments, ma soprattutto un sottolineare l’importanza di pensare e farsi domande, davanti all’arte.
Andreas Lolis, greco, scolpisce in modo impeccabile nel marmo sacchi della spazzatura e vecchi cartoni: un’opera di altissimo livello tecnico che pare racchiudere quanto sprechiamo con noncuranza.
Antoine Catala ci accoglie all’ingresso del Padiglione Centrale con una serie di pannelli in rassicuranti colori pastello, con scritte che invitano a non preoccuparsi … ma sarà proprio così, o sarà un modo di farci distrarre dai problemi seri in cui siamo immersi?
Augustas Serapinas recupera mattoni (non contaminati) che rievocano la tragedia di Chernobyl, e li fa rimontare spontaneamente dai bambini.
Molto toccanti i dipinti di Nicole Eisenmann, ispirati alle prostitute di Toulouse Lautrec e di Ingres, dove sembra chiedersi perchè l’omosessualità femminile va bene solo per la perversione maschile, e non in un semplice rapporto d’amore tra due donne.
Passiamo nello strepitoso giardino di Carlo Scarpa, dove la vite americana è nel suo pieno splendore autunnale, e dove sono raccolte le silenziosissime incudini di Michael E. Smith.
Sun Yuan e Peng Yu ci mettono davanti a una pala meccanica che, incessantemente, sembra raccogliere, pulire, spalare sangue: un lavoro senza fine al quale la pala stessa ogni tanto si ribella,con moti quasi umani che toccano il cuore. Can’t help myself
A fianco, il muro di Teresa Margolles, rifinito con filo spinato, per proteggere i bambini messicani dai rapimenti con lo scopo di espiantare gli organi. Muro Ciutad Juarez
Christian Marclay ripropone L’Urlo ai giorni nostri,emesso dai Manga. Scram.
Yu Ji, con la serie Flesh in Stone, offre attenzione a chi è affetto da disabilità, di qualunque genere
Il surrealismo di oggi è rappresentato dalla scultura olografica L’Ange du Foyer di Cyprien Gaillard.
Martine Gutierrez si propone come Indigenous Woman, per non perdere il senso delle sue origini
Splendidi sono, a mio avviso, i monotipe di Ulrike Muller e incredibilmente creativi gli “abiti” di Zhanna Kadyrova, ucraina, che di solito usa ceramiche di manifattura comunista e che qui, con Second Hand, utilizza ceramiche provenienti da un hotel dismesso di Venezia,come omaggio alla città.
Ritroviamo George Condo che con la sua tela Facebook, ci mette in guardia sui pericoli di fake news, più o meno dirette, che possono arrivare dai social network
Arriviamo al Leone d’Oro Jimmy Durham, che propone una semplice, ma bellissima lastra di marmo proveniente dall’India, dicendoci così che la Natura può essere autrice di splendidi capolavori. Black Serpentine
Ed Atkins, con Bloom, si propone in autoritratti in forma di tarantola, a interiorizzare tutta la profonda simbologia del ragno.
Shilpa Gupta propone il suo cancello, metafora di tutti i confini, e lo fa sbattere con regolarità, mentre il muro lentamente si sgretola (Untitled)
Nijdeka Akunyili Crosby – laureata senza troppa convinzione – dipinge ritratti e interni domestici dove la vita umana è bandita
Il simpatico Alex da Corte ci propone The Decorated Shed, il plastico di una periferia americana dove la cultura e forse l’informazione sono bandite, dove l’unico passatempo possibile è quello di mangiare hamburger da McDonald’s e dove, coerentemente, anche il cielo è fatto di stelle finte. A scanso di problemi e alienazioni, le pareti sono in morbido velluto imbottito …
Le visite continuano nei Padiglioni dei diversi stati esteri.
Il Belgio, menzione speciale, offre un chiaro spaccato di una scelta di vita da parte di un Paese colpito da attacchi terroristici: chiuso, isolato, inflessibile contro chi non si adegua, e sull’orlo della follia. Mondo Cane di Jos de Gruyter e Harald Thys
Gli Stati Uniti inneggiano alla libertà, purchè non porti all’autodistruzione, ma mantenga il desiderio di essere sempre pronti a cambiare. Liberty/Libertà di Martin Puryear
La Francia si immerge nell’acquaticità di Venezia e offre una sorta di ricordi di viaggio solo apparentemente semplici, in realtà oggetti in prezioso vetro di Murano. Deep Sea Blue Surrounding You di Laure Prouvost
La Gran Bretagna ci immerge in un’atmosfera delicata che guarda con rispetto e amore al passato e al valore delle cose che da esso ci arrivano, con una indicazione al rispetto e al non spreco. Di Cathy Wilkes.
Israele propone un “ospedale” dove chi ha avuto dolori e traumi possa sfogarsi, capirli e venire curato. Una sorta di progetto per il futuro, già impostato. Field Hospital X di Aya Ben Ron
Bello il progetto presentato dal Brasile: Swinguetta, una danza carica di energia da proporre ai giovani delle periferie per distrarli dalla violenza e da altre devianze. Di Barbara Wagner e Benjamin de Burca
Discordo Ergo Sum è un progetto feroce di Renate Bertlmann per l’Austria, un inno femminista alla condizione della donna forzata alla maternità, forse un po’ datato.
Infine, la Romania ci porta alle Unfinished Conversations on the Weight of Absence, in particolare con una parete pronta ad accogliere le rose e i fiori della nostalgia.
La Biennale 2019 è esaurita, ora non resta che farla nostra.
Venezia ci saluta con un tramonto mozzafiato.
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