(31 luglio – 14 agosto 2009)
31 luglio – Daniele ci accompagna a Linate la mattina molto presto: facciamo insieme colazione e poi via … scalo a Francoforte, trasvolata oceanica e poi ancora sorvoliamo tutti gli Stati Uniti perché atterriamo, dopo 11 faticosissime ore, a San Francisco dove, grazie ai fusi orari rincorsi, è solo primo pomeriggio.
Ci raccoglie Dario, italo svizzero trapiantato in California, che ci porta all’hotel Holiday Inn Civic Central. All’aeroporto il tempo è bello soleggiato e persino tiepido, ma è una pia illusione, perché in città troviamo, come da tradizione, nebbia e fresco, per non dire freddo. L’albergo è bello e comodo, ma ahimè un po’ decentrato e in una zona piuttosto squallida. Facciamo subito una passeggiata verso il centro, prendendo la Market Street, una delle arterie stradali che attraversano tutta la città, e all’incrocio con Powell troviamo un capolinea del cable car, il vecchio tram a fune che sale e scende per tutta la città.
Ci sono molti homeless che si portano dietro tutto quello che possiedono nei carrelli del supermercato. Pare che con la crisi siano aumentati, ma che comunque facciano un po’ parte della normalità, e non è facile da accettare. Hanno comunque molta dignità, e ne vediamo un gruppo che gioca a scacchi. Sulla via del ritorno assistiamo a una sfilata di biciclette, e qui San Francisco tira fuori la sua anima profondamente libera dai giudizi e anticonformista: tra le tante bici ci sono molti modelli insoliti e divertenti, ma tra chi le guida c’è una ragazza in topless e due ragazzi nudi che pedalano in mezzo agli altri in allegria! E come primo giorno siamo a posto così! Cena al Burger King (non c’è altro in zona) e via a nanna, che siamo in piedi da circa 24 ore.
1 agosto – Naturalmente siamo svegli prestissimo per l’ora locale, ma meglio così che il tempo ci rende di più. Alle otto siamo già alla fermata del cable car con l’intenzione di farci portare all’altro capolinea, Fisherman Wharf. Ma il tram è rotto, o meglio è rotta la fune che lo traina –pare capiti spesso – e dopo una lunga e vana attesa, mentre la fila di chi vuol salire si allunga sempre di più, decidiamo di avviarci a piedi e prenderlo semmai al ritorno.
Ci arrampichiamo per la Powell Street, e come prima tappa ci fermiamo a Union Square, uno dei centri principali della città, dove hanno sede alcuni degli hotel più prestigiosi e alcuni interessanti negozi: infatti ci lanciamo nello shopping, soprattutto nello store della Levi’s (bisogna dire che negli Usa i jeans costano il giusto) e da William Sonoma, negozio meraviglioso di casalinghi dove avrei comprato tutto, ma mi accontento di qualche accessorio per la cucina e di due bellissimi grembiuli.
Così carichi riprendiamo la nostra passeggiata verso Fisherman Wharf: sulla strada incrociamo Chinatown, variopinta e caratteristica (oltre ad essere il più popoloso agglomerato di cinesi fuori dalla Cina),e a seguire North Beach, ovvero il quartiere italiano. I posti più interessanti sono la strada Cristoforo Colombo che lo incrocia per un bel pezzo, la Washington Square, verdissima, la chiesa di San Pietro e Paolo, bianca e dallo stile un po’ impreciso, e le bandierine tricolore che avvolgono i pali della luce. Inconsapevoli della distanza ancora da percorrere, resa difficile da calcolare a causa del continuo saliscendi della città, continuiamo a camminare, e guardiamo le case vittoriane di legno, dipinte in tenui colori, arricchite da una vegetazione uguale a quella della Liguria, soprattutto palme e bouganville.
Finalmente raggiungiamo il mare, i famosi Pier 39 e Fisherman Wharf, una zona di San Francisco affollatissima di turisti e di conseguenza di negozi a loro dedicati, ma riusciamo a trovare qualcosa di divertente: per esempio l’immancabile Hard Rock Cafè, e soprattutto il Wild Forest Shop, dove sembra di immergersi in una foresta tropicale e dove c’è un acquario gigantesco. Nel bailamme generale, nella confusione della folla, mentre i gabbiani resi domestici dall’abitudine ci camminano tra le gambe come fossero polli, entriamo da Ghirardelli a comprare il cioccolato, guardiamo dall’esterno una nave da guerra e un sottomarino attraccati e rimasti qui dopo la seconda guerra mondiale, facciamo una visita alla colonia di leoni marini che, tra un tuffo e l’altro, se ne stanno stravaccati al sole (leggiamo che alcuni di questi animali, abituati ad essere nutriti dai turisti e da chi si diverte a guardarli, ha deciso di non emigrare seguendo l’istinto della specie, ma si ferma qui tutto l’anno).
Dopo questa immersione nella folla, peraltro divertente perché le cose curiose da vedere, anche piccole, sono tantissime, torniamo verso l’albergo. Stasera ceniamo con Lorenzo e dobbiamo raggiungerlo a casa sua, quartiere Mission.
Cambiamo completamente panorama: mentre prima abbiamo camminato verso nord, ora ci dirigiamo verso sud ovest, e dopo un bel pezzo di strada tra capannoni ed edifici più o meno anonimi, ricominciamo ad arrampicarci. Del resto, dobbiamo raggiungere il Dolores Park, e dalle foto abbiamo visto che ha una bellissima vista sul Financial District. Nel frattempo, però, incrociamo la Mission Dolores, una chiesa un po’ barocca, la chiesa della Mission di San Francesco, piccola e bianca ma tutt’altro che mistica, visto che ospita un cocktail party, e entriamo nello spirito della zona, piuttosto messicano, visti i numerosi locali che offrono tapas e burrito.
Raggiungiamo il parco, che è piccolino ma molto affollato di persone che si divertono e si capisce quanto amino stare all’aperto: si portano qualunque cosa per passare il tempo, libri, strumenti musicali, cibo, e si godono i prati. Lorenzo abita molto vicino, in una bella casa vittoriana: il suo appartamento è al secondo piano, ingresso indipendente e un curato backyard dove, sembra impossibile, ma i rumori della strada non arrivano. Con Lorenzo mangiamo ottime e saporitissime tapas, ma prima ci accompagna a vedere i murales di Balmy Alley, una piccola strada i cui muri laterali sono completamente dipinti, sia di immagini fantastiche che di richiami alle tragedie politiche sudamericane. Torniamo all’albergo che la città è ormai immersa nella notte, e dai locali risuonano le musiche e le chiacchiere.
2 agosto – Oggi incontriamo il gruppo con cui faremo il viaggio: siamo un pullman bello pieno di 50 persone, e lì per lì mi viene un colpo. Come faremo a sincronizzarci in 50? Ancora non so che andrà tutto benissimo, anche per merito di Maria, la nostra guida, che dimostra subito un piglio militare ben deciso, indispensabile per mettere in riga 50 italiani tendenzialmente indisciplinati.
Alla mattina ci uniamo al gruppo per un tour (velocissimo) della città, ri-vediamo Chinatown e North Beach, ma poi andiamo verso ovest, in Alamo Square dove ci sono case vittoriane meravigliose e di gran lusso, da lì attraversiamo l’ordinatissima Japan Town fino al Golden Gate Park. Visitiamo il Giardino Zen, delizioso angolo fuori dal mondo dove regna silenzio e calma, appunto, zen (ma come fanno?), poi finalmente arriviamo al magico Golden Gate.
La sua struttura rossa e imponente, che scavalca la baia di San Francisco, ne fa il simbolo della città: lo attraversiamo in parte, giusto per poter godere del panorama di Frisco dal mare, con davanti la sua baia piena di barche, e Alcatraz, prigione a un passo dalla terraferma, resa incredibilmente sicura da un mare freddissimo e dotato di correnti così forti che è impossibile nuotarvi. Ancora con il gruppo scendiamo fino a Fisherman Wharf e facciamo un giro nel Cannery (ex fabbrica Del Monte, ora centro per turisti con ristoranti e negozietti niente male), pranziamo tutti insieme. Il gruppo procede in pullman per Sausalito, noi preferiamo continuare il giro della città, ci mancano alcune zone da visitare.
Prima di tutto andiamo alla famosa e fiorita Lombard Street, poi attraversiamo fino a Telegraph Hill, antico punto di avvistamento da cui si gode una stupenda vista della baia – sembra non finire mai!, poi prendiamo un taxi che ci porta a Haigh Ashbury.
Il quartiere dove, nel 1967, si celebrò la Summer of Love e da cui partì la protesta pacifista contro la guerra in Vietnam, che attraversò il mondo, è oggi un’elegante strada che vive di ricordi, con negozi particolari a misura di turisti. Non resisto lo shopping di magliette con su il simbolo della pace! Da qui, ritorniamo verso l’hotel facendo un giro ampio che ci porta a passare per Castro. E’ il quartiere gay, pulito, ordinato e apparentemente deserto come spesso sono in queste città americane, dove le case hanno le tende aperte e gli interni sono esposti, indifferenti alla curiosità di chi passa … ma in effetti passiamo solo noi ….
Il centro di Castro, con il suo cinema, è invece pulsante di persone, soprattutto coppie omosessuali, e di negozi che senza imbarazzo propongono incontri, letteratura erotica, film dedicati a coppie monosex. Qui sventolano due bandiere della pace, quasi una firma dell’aria che si respira in tutta la città, stravagante e totalmente priva di giudizi. Riprendiamo la Market Street, sappiamo che ci porterà dritti all’hotel, siamo stremati, facciamo l’ultima cena in solitaria e poi a nanna. Domattina si parte, e presto, per il tour.
3 agosto – Si parte verso l’interno: la prima città che incrociamo è Oakland, poi la campagna, con distese di filari di viti e frutteti, e enormi pale eoliche. Il nostro obiettivo, oggi è il parco nazionale di Yosemite (pare che il nome derivi da Yusumati, che corrisponde a grizzly bear).
La prima fermata è davanti all’imponente roccia di El Capitan, parete di granito praticamente verticale, scalabile, altissima … cominciamo a prendere atto di queste proporzioni immense a cui i nostri occhi non sono abituati … e le cascate Velo di Sposa (Bride Veil), nome di facile interpretazione visto che l’acqua, prima di precipitare, spruzza e nebulizza una nuvola bianca che ricorda, appunto, un velo. Ci attardiamo nel bosco dove ci sono numerose sequoie, che non hanno le proporzioni immense del Generale Sherman (che non vedremo) ma si difendono. Riprendiamo il cammino per fermarci su una posizione panoramica dalla quale si vede bene l’Half Dome, altra parete verticale ancora più alta di El Capitan, e per camminare su una distesa di dune di pietra bianchissime e brillanti nel sole. Attraversiamo tutto il parco, godendone il verde della vegetazione, l’azzurro del cielo e soprattutto la vastità dello spazio libero, perché stasera dormiremo a Mammoth Lake, stazione sciistica frequentata da sanfrancischesi e losangelini. Siamo sulla Sierra Nevada. Insomma andiamo in montagna, dove c’è persino ancora un po’ di neve. Sul percorso costeggiamo il bellissimo Mono Lake, azzurro placido, caratteristico per le rocce e le stalattiti che sorgono dalle sue acque. Ceniamo appena discretamente in un hotel gelido (e impariamo un’altra cosa degli americani: adorano il ghiaccio e l’aria condizionata bassissima …).
4 agosto – Ci alziamo con un bel tempo sereno, temperatura decisamente fresca e residui di neve sui monti attorno. Partiamo e, dopo pochi tornanti, incontriamo il punto dove passa la Faglia di Sant’Andrea, dove le zolle sono vicine ma non aderenti. Comunque per adesso niente terremoto, noi abbandoniamo i monti della Sierra Nevada, ritorniamo in pianura e prendiamo confidenza con gli spazi infiniti, le strade lunghe e dritte del Nevada.
Siamo a una estremità del deserto del Mojave, un ampio spazio che si stende dalla base della Sierra Nevada verso sud, fin dietro la città di Los Angeles. Incontriamo mucche al pascolo, praterie di Joshua Trees, ma rarissimi insediamenti umani. Ci sorvolano quattro aerei da caccia in perfetta formazione, qui c’è una importante base militare. Vediamo Manzanar (frutteto di mele, in spagnolo), ovvero quello che resta della prigione dove sono stati reclusi più di 100mila giapponesi dopo la seconda guerra mondiale.
Dopo il 1945, i Giapponesi stessi hanno voluto trasformare questo spazio in un sito storico, e i discendenti dei prigionieri vengono ancora a visitarlo. Intanto il paesaggio si fa sempre più arido e desolato, stiamo entrando nella Death Valley. Il primo punto panoramico che incontriamo è il Crowley Point: da qui, il paesaggio lunare di questo deserto si propone in tutte le tonalità dell’ocra. Continuiamo per quella che è una pista bianca e infuocata dal caldo (la temperatura esterna è intorno ai 45°) fino al deserto di dune di sabbia. Facciamo una sosta torrida a Furnace Creek, di nome e di fatto… Qui, a beneficio dei turisti, ci sono il negozio di alimentari, un paio di ristoranti e ovviamente uno spazio dove comperare souvenirs e magliette. Consumiamo uno spuntino su una panchina, peraltro circondati da uccelli scheletrici e affamati che ci girano intorno con il becco spalancato. Tra loro e il caldo non vedo l’ora di ripartire. La tappa successiva è (finalmente!) Zabriskie Point, luogo di grande emozione per chi ha amato e apprezzato l’omonimo film di Antonioni. Devo dire che vederlo, entrarci, ascoltarne il silenzio e osservarne le forme rigorose, tutto questo dà un’emozione difficile da descrivere. Le tonalità dei colori, pur simili, sono tantissime, dal bianco più freddo alle sfumature arancio; le forme tondeggianti e levigate dal vento di centinaia di anni sono morbide, nonostante stiamo parlando di arida pietra; l’ampiezza dello spazio è, come al solito, insolita per i nostri canoni, inafferrabile. Resterei in mezzo a questo deserto ancora a lungo … chissà perché il deserto mi attrae così tanto … ma si riparte, stasera saremo a Las Vegas.
Appunto, Las Vegas, che delusione! E’ vero che ovunque ci sono slot machine e tavoli da roulette dove giocare, ma sono circondati da povera gente in cerca di fortuna non per gioco ma, sembra, per sopravvivere. La tristezza è palpabile. Per sfuggire a tutto questo noi, con Lella e Gino, prendiamo la mono rotaia e andiamo sulla Strip, entriamo nel Ceasar Palace dove serenamente ci perdiamo in mezzo a un baraccone di giochi da circo, vetrine di griffe italiane, corridoi, fontane, cieli finti, luci, musiche …. E aria condizionata gelata! Diamo ancora un’occhiata alle scenografie che riprendono Venezia e Parigi, assistiamo all’eruzione del vulcano e serenamente ce ne torniamo in albergo. Abbiamo visto Las Vegas, arida cattedrale nel deserto.
5 agosto – Via da Las Vegas! Ma è più facile dirlo che farlo, si rompe il pullman e perdiamo due ore in attesa della sostituzione. Scopriamo poi che abbiamo semplicemente perso un po’ di tempo che sarebbe stato dedicato allo shopping in un outlet lungo la strada, dove riusciamo comunque a colpire, quindi poco male. Le mete che raggiungeremo oggi saranno lo Zion Park e, stasera, il Bryce Canyon, ma intanto ci sono moltissimi chilometri da percorrere nel deserto. Siamo nel Nevada, entreremo nello Utah, lo stato dei Mormoni. Maria, la nostra guida, ci racconta di una località chiamata Four Corners, dove non passeremo, ma che rappresenta il punto ideale dove si incontrano quattro Stati, Arizona, Utah, Colorado, New Mexico. Comunque dalle finestre del nostro pullman continuiamo a prender confidenza con questi spazi immensi e sconfinati.
La strada è un unico nastro asfaltato in mezzo al nulla, intorno solo qualche strada sterrata. Attraversiamo il Virgin River, un affluente del Colorado. Questo che percorriamo è il West per eccellenza, il territorio storicamente occupato dai nativi americani, di cui cominciamo a imparare qualcosa: per esempio, che i primi a insediarsi erano gli Anasazi, o Fremont People, antenati degli indiani Pueblo. Questa tribù, ricordata ancora oggi per la sua abilità nella lavorazione della ceramica e dei cesti di paglia, pare sia improvvisamente scomparsa. In realtà, forse si sono solo spostati alla ricerca di un clima migliore, e chi è rimasto ha cambiato le abitudini fino a riconoscersi con nomi diversi, come Pueblo, Hopi.
Ci arrampichiamo sullo Zion Park (il nome deriva da Sion, terra promessa): è il nostro primo impatto con l’arenaria rossa emersa dal mare migliaia di anni fa, ed molto emozionante. Sulle pareti a strapiombo si alternano tutte le tonalità del rosso e dell’arancio, il bianco del calcare, il nero lasciato dall’acqua della pioggia, il verde dei tenaci alberi che crescono nelle posizioni più insolite. Come descrivere tutto questo? Non credo sia possibile, le immagini si somigliano, ma nella realtà ogni angolo è diverso, diversa l’alternanza dei colori, l’intensità della luce, la brillantezza dove batte il sole e l’atmosfera del controluce, tutto a confronto con gli spazi senza confine e il silenzio totale.
Riprendiamo la marcia, stasera saremo al Bryce Canyon, una scultura gigante fatta di mille colonne lavorate nei secoli dagli elementi: arriviamo al tramonto, e subito ci è chiaro che non potevamo essere più fortunati. La giornata è bellissima, noi ci affacciamo su questa meraviglia bianca, gialla e arancio, che è di pietra, ma cambia in continuazione a seconda della posizione da cui si guarda, delle nuvole che, correndo, creano ombre ad effetto, dei raggi obliqui del sole che fanno risaltare la profondità. La fantasia della natura ci sovrasta e ci diverte, scendiamo in mezzo a questi “camini” per il gusto di toccarli. Certo ci piacerebbe stare molto più tempo, ma ci accontentiamo. Alloggiamo al Best Western Ruby’s Inn, che capiremo poi essere il migliore di tutti gli hotel, dove mangiamo una bistecca squisita.
6 agosto – Lasciamo l’ottimo Ruby’s Inn e ci avviamo verso Canyonlands. Stamattina piove, ma rapidamente migliora, e durante il viaggio ci accompagna una colonna sonora di musica country. Siamo entrati totalmente nel west più classico, il west che conosciamo attraverso i film, fatto di sterminati campi e mandrie di bovini. In questi territori si sono consumati infiniti scontri tra i nativi e i bianchi invasori, culminati con la battaglia del Little Bighorn (che si trova nel Montana orientale). Alla fine di questa battaglia, tra i Lakota Sioux, Cheyenne e Arapaho da una parte, e il 7° Cavalleggeri guidati dal tenente colonnello George Armstrong Custer dall’altro, risultarono vincitori i nativi grazie alla strategia di Sitting Bull e al coraggio di Crazy Horse: quasi tutti i bianchi furono sterminati.
« Quando un esercito dei bianchi combatte gli indiani e vince, questa è considerata una grande vittoria, ma se sono i bianchi ad essere sconfitti, allora è chiamata massacro. » | |
(Chiksika) |
All’ora di pranzo siamo a Capital Reef, un’altra area di rocce rosse che riesce ad essere spettacolare in un modo ancora diverso: ci sono colonne di arenaria che si succedono per chilometri, e nel nostro percorso incontriamo quella chiamata The Castle. Ci fermiamo per il pranzo, o meglio un picnic, a Fruita, un’area ricca, appunto, di frutteti, un tempo abitata dai Mormoni che qui hanno una piccola dimora visitabile, oltre a una sorta di self service della frutta, U-pick fruit. L’area è davvero gradevole, ampia e luminosa, ci sono i cerbiatti che, senza troppo timore, si avvicinano a si lasciano fotografare, ci sono alberi di pioppo di dimensioni gigantesche (del resto siamo in America dove tutto è grande, no? …) e di lì passa il fiume chiamato Fremont, come gli indiani che hanno abitato queste zone.
Dopopranzo ripartiamo e nel percorso il paesaggio cambia continuamente, vediamo nelle rocce tutte le forme e tutti i colori, godiamo uno spettacolo quasi indescrivibile, sono i Needles. La prossima tappa è Dead Horse Pont, uno spazio reso celebre dal film Thelma & Louise, ma che merita tutta la nostra attenzione sia per la leggenda da cui prende il nome che per la bellezza intrinseca del luogo. Il nome deriva dalla storia di un gruppo di cavalli selvaggi, catturati dai cowboys, raccolti su questo strapiombo a picco del fiume Colorado, e poi dimenticati, così che i cavalli sono morti di sete a poche centinaia di metri dall’acqua. Lo spettacolo è suggestivo, qui il colore verde-azzurro del fiume, che si piega in un’ansa molto stretta, brilla nel contrasto con la terra rossa che lo circonda, e riflette il colore del cielo e delle nuvole. E’ un punto dove si incontrano tutte le caratteristiche paesaggistiche di questa zona, oltre ad essere solo una parte di uno spazio incommensurabile, e l’emozione è davvero tanta. Anche questo in Europa non c’è.
Lasciamo Dead Horse Point e riprendiamo verso Canyonland, la nostra meta finale della giornata, terra abitata dagli indiani Fremont: ci fermiamo a Moab, all’hotel Ramada, e con Gino e Graziella ci concediamo una succulenta cena messicana, oltre una passeggiata nella città e nei suoi negozi pro turisti. La mattina dopo, con la luce, ci accorgeremo di essere immersi nelle rocce di arenaria rosse e di avere una spettacolare vista sui monti La Sal, così bianchi di sale da apparire innevati.
7 agosto – Ci dirigiamo verso Arches, un’altra area di Canyonlands, e ancora una volta prendiamo atto di come questa terra riesca ad offrire paesaggi diversi usando sempre l’arenaria rossa e gli elemento naturali (pioggia, ghiaccio e soprattutto tempo) che la lavorano. Arches, come dice il nome, è una concentrazione di rocce ad arco, aperte, bucate, dove è facile arrampicarsi per godere, attraverso queste finestre naturali, ulteriori paesaggi mozzafiato.
Impariamo il nome di alcuni di questi punti: vicino all’entrata dl parco ci sono Double Arch, North Window, South Window; la passeggiata ci porta poi a Balanced Rock, straordinario episodio di equilibrio perfetto (ma non è la sola roccia in bilico, forse solo la più grande), poi arriviamo in cima a Park Avenue, una passeggiata fiancheggiata da altri straordinari monoliti tra cui la Torre di Babele. Qui abita anche il leone di montagna, come ci dicono i cartelli di warning diffusi in giro. Sulla via dell’uscita vediamo ancora le dune pietrificate, che sono effettivamente antiche dune di sabbia diventate nel tempo dure come pietra e quindi soggette anch’esse all’erosione del tempo e degli agenti atmosferici.
Entriamo nel Colorado e continuiamo verso Mesa Verde. Mesa, in spagnolo, significa tavola, e ci portiamo infatti verso un enorme altopiano estremamente ricco di vegetazione, e molto vario nella sua vastità. Dai punti panoramici vediamo la collina degradante verso gli spazi infiniti della pianura, da cui i Navajo contemplavano la loro terra, convinti di esserne i padroni assoluti in quanto da essa venivano generati, e in perfetto connubio con le divinità celesti. Siamo prossimi alle Montagne Rocciose, e i centri più grandi si chiamano Montezuma o Monticello Cortez. Qui risiedevano le tribù più antiche dei nativi, le tribù degli Anasazi, predecessori dei Navajo e dei Pueblo, che avevano trovato rifugio negli stretti spazi scavati sulle pareti del canyon, modellando la roccia e costruendovi stanze adatte per la vita quotidiana, la conservazione dei cibi e, naturalmente, la preghiera (Kivas). Sono numerose queste antiche abitazioni, che si trovano a tutte le altezze e lasciano intuire un popolo di atleti, e che sono state a un certo punto abbandonate senza motivo apparente. I loro nomi sono Oak Tree House, Spruce Tree House, Cliff Palace. Il museo del centro ci mostra la ricostruzione di alcune scene di vita degli indiani Anasazi, e mettono in evidenza la loro abilità sia nel confezionamento dei cesti che nella tessitura (un’opera esposta ricorda molto da vicino i Mandala dell’India). La vegetazione che ci circonda è ricca e insolita, come la pianta chiamata Rabbitbush i cui steli servono da basi per i canestri, i fiori gialli sono usati per colorare i tessuti e le foglie cotte fanno lievitare la pasta! Incontriamo poi un’area vastissima della National Forest completamente bruciata: la nostra guida ci racconta che l’incendio risale all’anno 2000, ma secondo la filosofia che regola la vita vegetativa nei parchi, non si fa nessun diretto intervento, ma si aspetta che la natura faccia il suo corso e lentamente rinascano alberi e sottobosco. Consumiamo il nostro pranzo nel buon ristorante gestito dai Navajo: troviamo anche la pizza!
Ripartiamo verso la città dove pernotteremo stasera, Durango, una cittadina che, fondata nel 1879, mantiene un’anima allegra da far west. E’ ancora uno snodo ferroviario, sebbene meno importante che in passato, quando il collegamento a Silverstone era importante per il trasporto dell’argento. Il fiume che l’attraversa si chiama Las Animas Perdidas (quindi ci avviciniamo al New Mexico). Alloggiamo all’Holiday Inn, ma ceniamo da Diamond Belle Saloon, dove il pianista in mezzo alla sala e le cameriere vestite in un elegante abito anni ’20 ci portano in una realtà inattesa. Forse questa coreografia è solo a beneficio dei turisti, ma le due coppie anziane che cenano vicino a noi e suggeriscono al pianista che pezzi suonare sembrano veramente uscite da un film con John Wayne, mentre i cow boys che si fermano al banco del bar per bere qualcosa lavorano veramente con le mandrie di bovini.
8 agosto – Oggi ci aspetta una sorpresa: partiamo un po’ di fretta perché entro le 10 dobbiamo raggiungere Chama per assistere alla partenza del treno a vapore. Nel frattempo contempliamo ancora il paesaggio del selvaggio West, mentre entriamo nel New Mexico. Siamo vicino al punto dei Four Corners, il confine virtuale formato da quattro angoli retti (che non visitiamo) e che crea il punto in cui si toccano quattro Stati: Colorado, Utah, New Mexico e Arizona.
Qui si aprono ancora spazi sconfinati dedicati all’agricoltura, vediamo un pozzo che gli amici ingegneri ci spiegano essere del tipo a cavalletto, mentre Maria ci dice altre definizioni della cultura Navajo: Story tellers, le bambole Kashina, Sandprinters, Death Catchers, Medicine Wheel … un mondo affascinante. Il paesaggio piano piano si trasforma e diventa simile a quello del nostro Appennino, così raggiungiamo Chama. Siamo in tempo per vedere e sentire la partenza del treno a vapore diretto a Denver, resa solenne dalla banda di attempati signori vestiti come ranger che suonano la famosa marcia di Micky Mouse. Il treno sbuffa e fischia il suo vapore bianco e facciamo un rapido tuffo nell’800 … Conosco Mrs Lucilla, che mi spiega essere la moglie di uno dei band volunteers, che il treno e la cerimonia quotidiana si sostengono da soli con la generosità individuale. Ma la sorpresa è che oggi a Chama c’è l’annuale sfilata, con i cavalli, le miss piccole e grandi, i carri decorati, la musica, le caramelle, i cavalli e i cow boys … ci divertiamo come matti, osserviamo questa manifestazione fatta di pochi mezzi e di tanto entusiasmo, mentre tutto il paese si è portato le sedie da casa per non perdersi nemmeno un momento di questo giorno di festa.
Ci rimettiamo in marcia, la prossima tappa è Santa Fe, capitale dello stato del New Mexico: costeggiando la Santa Fe Natural Forest raggiungiamo la città caratterizzata dalle forme morbide delle costruzioni in adobe. Facciamo base all’hotel La Fonda (nei bagni c’è l’Air Blade Dyson!), forse il più elegante della città, con il ristorante installato in un patio interno e circondato da vetri decorati e colorati. Noi preferiamo fare un giro più ampio possibile, ci fermiamo davanti alla cattedrale dedicata a San Francesco d’Assisi, al Palazzo del Governatore, entrambi affacciati sulla piazza, ma ancora più interessanti sono Loretto, una costruzione eseguita secondo lo stile degli indiani Pueblo, e l’antichissima Mission. Poco lontano dalla main road c’è il museo dedicato alla pittrice Georgia O’Keeffe, nelle cui opere straordinarie il dettaglio acquista un’importanza centrale.
Si riparte, stasera dormiamo ad Albuquerque, cittadina che riprende lo stile accogliente degli edifici in adobe, anch’essa con una bella piazza fiorita e un mercatino sotto i portici. Maria ci dice che qui il cattolicesimo rasenta il fanatismo. Noi visitiamo il rettilario perché non si può lasciare questa regione senza aver visto almeno una tarantola e un serpente a sonagli. Ceniamo e dormiamo all’Hilton.
9 agosto – Lasciamo Albuquerque e ci dirigiamo verso Gallup, facendo una tappa “fotografica” per riprendere un pezzo della famosa Route 66: la strada per intero non esiste più, sostituita da più recenti e comodi percorsi, ma mantiene il fascino di quello che ha rappresentato per la nostra generazione.
Oggi entriamo finalmente nella grande riserva Navajo. Questo è esattamente lo spazio che gli Stati Uniti hanno lasciato ai nativi, dove hanno un governo proprio, fanno le loro elezioni e parlano la loro lingua. Purtroppo hanno anche un’economia propria, infatti sono poverissimi e vivono in condizioni davvero squallide, circa il 70% sono disoccupati e molto diffuso è l’abuso di alcool. Per aiutarli, non si è trovato di meglio che permettere loro di aprire e gestire dei casino che, qua e là nella pianura, hanno un aspetto molto meno scintillante che non a Las Vegas. La riserva, che spazia anche in Arizona, misura circa 250mila kmq, e naturalmente la densità abitativa è molto bassa. Il nome Navajo è stato imposto dai bianchi, perché loro si riconoscono con il nome di Dineh, che significa popolo. Sono bravissimi tessitori, molto abili a cavalcare (vediamo diverse installazioni dove si tengono i rodei), timidi e riservati, molto spirituali. Proprio questa loro spiritualità, il rispetto per la terra madre e i suoi frutti, che ne impedisce lo sfruttamento, contribuiscono fortemente alle loro povere condizioni. Tra le risorse, ci sono l’allevamento e gli oggetti di piccolo artigianato in argento e turchese chiaro, ovvero il metallo e la pietra che si trovano nei loro monti. La capitale della riserva-stato è Window Rock, così chiamata proprio perché la montagna che la circonda presenta una finestra naturale. La filosofia di vita dei nativi americani è molto interessante, e si concentra sulla loro forte spiritualità: non temono la morte, che non rappresenta un tabù, (anche in battaglia le andavano incontro vestiti con eleganza per incontrarla nella forma migliore); la vecchiaia è un valore riconosciuto e rispettato, mentre le malattia rappresenta un segnale di disarmonia tra il corpo e lo spirito, a causa della quale l’energia non fluisce più come dovrebbe. Non amano farsi fotografare, temono di perdere l’anima; tradizionalmente i matrimoni sono combinati. Oggi si stanno aprendo a tutte le religioni, e ci sono speranze per futuro più solido in quanto nella riserva è stato trovato il petrolio.
Tra le numerose tristi storie che si conoscono sulla deportazione dei nativi, c’è quella della Lunga Marcia (the Long Walk) organizzata nel 1864 da Kit Carson: il governo statunitense aveva disposto il trasferimento dei Navajo dalle fertili terre del Canyon de Cheilly al deserto dell’Arizona (comunque appetibile per i bianchi per le ricchezze minerarie) . Durante questo lungo trasferimento molti indiani morirono, e molti di quelli che arrivarono a destinazione non sopravvissero a lungo a causa delle misere risorse che trovarono nella regione in cui furono confinati. Solo dopo alcuni anni alle popolazioni Dineh superstiti furono assegnati altri territori, più vasti e con qualche risorsa.
http://www.logoi.com/notes/long_walk.html
Nel Canyon de Cheilly c’è la Spider Rock, per me la vista più suggestiva di tutto il viaggio: è un monolite alto circa 250metri che si slancia verso il cielo dalla profondità del canyon. Il suo colore è rosso, la cima bianca e la leggenda vuole che sia abitato dalla Spider Woman, la dea che ha insegnato ai Navajo a tessere. Saranno le proporzioni, i colori, sarà il richiamo a una divinità femminile, ma in questo che è un luogo sacro per i nativi anch’io ne percepisco la spiritualità.
In occidente costruiamo cattedrali e campanili, qui la natura li ha forniti belli e pronti. Dopo aver ammirato in silenzio e a lungo la Spider Rock, in rispetto per lo spirito dei nativi, riprendiamo la strada. Incontriamo numerose hogan, le case di legno e paglia che hanno forme maschili (Stick hogan) e femminili (Round hogan).
Alla sera ci fermiamo all’Holiday Inn di Kayenta, il personale è rigorosamente del popolo Dineh: nonostante gli avvertimenti di Maria, che ce li ha illustrati come piuttosto lenti, li trovo invece ben capaci ad accogliere il nostro gruppo. In lontananza si intravede la Monument Valley…
10 agosto – E in un crescendo di suggestioni, oggi siamo alla Monument Valley e le sue cattedrali dell’assoluto. Per quanto questo scenario sia noto a tutti, il confronto con la realtà, la vastità degli spazi, incommensurabile, e la suggestione di quello che la natura e gli elementi sono riusciti a fare è un’altra volta indescrivibile. Facciamo un giro all’interno della valley con il pulmino guidato da un nativo, il quale ci dice i nomi delle rocce che incontriamo e ci racconta qualche curiosità legata al territorio, agli animali che vi si trovano: ma la sacralità del posto ha il sopravvento. Se da una parte la morfologia di questo territorio è grossomodo sempre la stessa, in realtà ogni canyon ha caratteristiche che lo rendono molto diverso dagli altri, e qui è la verticalità perfetta di queste rocce e pinnacoli che si innalzano verso il cielo a offrire uno spettacolo unico al mondo. Al View Hotel (brutto, ma in una posizione dominante spettacolare) ci prendiamo una vista complessiva della valle, prima di rimetterci in movimento. Facciamo un pranzo veloce al Burger King di Kayenta, dove possiamo vedere con calma altre hogan e un piccolo museo Navajo. Tra quanto esposto, ovviamente archi, frecce e utensili, c’è la storia dei Navajo Talker, i nativi che, durante la seconda guerra mondiale, trasmettevano messaggi nella loro lingua, usata come un codice segreto.
E a completamento della giornata clou di questo viaggio, proseguiamo per raggiungere il Gran Canyon. Questo “buco” di arenaria scavato sulla superficie della terra è talmente impressionante, visto dal vero, che non si riesce a collegarlo con le innumerevoli immagini che abbiamo visto in foto e al cinema. Già le dimensioni – 445 km di lunghezza x 29 km di larghezza x 1830 mt di profondità – fanno capire che non è possibile abbracciarlo tutto con uno sguardo. Da un lato si perde all’orizzonte, e dall’altro si intravede il bordo di fronte, ma nel mezzo ci sono le vallate e i pinnacoli, il rosso dell’arenaria e il bianco delle rocce, la vegetazione brillante che cresce ovunque a discapito dell’aridità della roccia e delle pareti verticali, con scorci del Colorado che corre sul fondo: qui si possono leggere i 2/5 della storia della terra. E’ databile nel Mesozoico il momento in cui, con un corrugamento da cui si sono originate anche le Montagne Rocciose, il fondo del mare si è innalzato formando l’altopiano del Colorado, e poi gli elementi hanno fatto il lavoro di scavo e incisione che vediamo ora sotto i nostri occhi. Date le dimensioni i punti di osservazione sono numerosi, noi che costeggiamo il South Rim ci fermiamo a Desert View, a Mother Point e a Bright Angel, dove c’è un lodge. Tra i picchi giganteschi che ci si parano davanti si riconoscono i Templi di Vishnu e di Buddha La giornata è serena e luminosa, purtroppo degli incendi, di cui intravvediamo l’origine sull’altro versante, rilasciano una cappa di fumo che offusca il panorama. Ogni tanto però il vento pulisce l’aria, e siamo gratificati da un gioco di luci e colori che, avvicinandosi l’ora del tramonto, cambia continuamente. A fine giornata la cena e l’albergo sono una delusione, ma che importa?
11 agosto – Oggi, con un tempo bellissimo, è il giorno della grande emozione: il giro in elicottero sul Gran Canyon. Non riuscivo a darmi un’immagine di questa esperienza, ed eccoci finalmente qui. Gli elicotteri sono piccolini e tutti colorati, noi veniamo ad uno ad uno pesati per la distribuzione corretta, e poi aspettiamo …. Siamo tutti in una stanza con una grande vetrata da cui vediamo partire i primi fortunati. Gruppo, foto, via. Finalmente è il nostro turno, e io sono il numero 1, che significa il posto accanto al pilota! Con me e Paolo ci sono Fiammetta, Mimmo, Roberta e Giovanni. E stupendo perché sono circondata dal vetro e vedo a 360 gradi. Mettiamo le cuffie e … si parte!
Davanti a me una strumentazione ampia ma (quasi) tutta facilmente decifrabile, mentre la nostra pilota, che si chiama Martha, guida con estrema disinvoltura toccando pochissimi comandi. E’ così facile guidare un elicottero? Comunque, ci alziamo mentre attraverso le cuffie ci accompagna la musica, e sorvoliamo la Kaibab National Forest: il Gran Canyon è laggiù, sempre più vicino …. Nel momento in cui il vuoto si apre sotto di noi, le note di Richard Strauss accompagnano la solennità dell’esperienza. Tutte quelle rocce, quelle torri di arenaria foggiate dal tempo che ieri abbiamo visto da lontano, ora ci sembra di poterle toccare. Guardo giù e in fondo scorre azzurro il fiume Colorado. Attraversiamo in volo tutta la larghezza e ritorniamo da un altro “corridoio”, un volo di circa mezz’ora gustato in ogni attimo. Torniamo alla base, e l’atterraggio dell’elicottero è ancora un momento particolare, si resta sospesi fermi per qualche attimo prima di posarsi su uno spazio ridottissimo. Che meraviglia! Siamo talmente elettrizzati che anche fermarsi a vedere gli altri gruppi che vanno e vengono ci diverte.
Il nostro viaggio riprende, e anche se lasciamo il Gran Canyon, non per questo ci allontaniamo dalle rocce rosse: raggiungiamo infatti l’imponente Oak Creek Canyon, dove entriamo per arrivare alla città di Sedona. Qui hanno sede i sette punti di energia, rappresentati da sette monoliti che circondano la città, dai quali è nato il movimento New Age e la forza del pensiero creativo. L’avvicinamento alla città è davvero suggestivo, con la strada che taglia il canyon e costeggia un fiume frequentatissimo. Sedona, che prende il nome dalla moglie del fondatore, è una cittadina giovane e turistica, resa particolare dalle numerose sculture, tutte colorate e divertenti, che sorgono un po’ dappertutto. Facciamo un po’ di shopping e soprattutto ci fermiamo a guardare e fotografare tutte le rocce che la circondano, anche queste con forme e colori particolari, rese ancora più brillanti dall’azzurro del cielo e il verde della vegetazione. Dopo il pranzo, riprendiamo il viaggio ancora piuttosto lungo verso la costa pacifica. Niente di noioso però, perché attraversiamo il Deserto di Sonora (che arriva a lambire il Messico) caratterizzato dai cactus saguaro, una specie gigante che cresce solo in questa zona e per questo, oltre che per i lunghissimi tempi di crescita, considerata a rischio.
Anche questo in Europa non c’è! Nel tardo pomeriggio arriviamo a Scottsdale, una città grande e ordinata ma inquietante perché non si vede in giro anima viva, forse a causa del gran caldo. L’hotel che ci accoglie è sicuramente molto bello, ci sono i conigli che corrono liberi, i colibrì, i picchi e una grande piscina dove ci tuffiamo e ci sgranchiamo. E’ però una cattedrale nel deserto, e un nostro tentativo di fare un giro dopo cena alla ricerca di un posto dove bere qualcosa non ha esito, tutto chiuso. Meno male che incontriamo Barbara e Mauro e facciamo due chiacchiere. Andiamo a nanna, con la sensazione di inquietanti presenze animali attorno …
12 agosto – Lasciamo senza rimpianti Scottsdale per dirigerci verso la California. Attraversiamo una zona montuosa, ricche di minerali – quarzite – e poi di nuovo il deserto con la sfilata delle pale eoliche. Ci fermiamo per il pranzo da Flying J, una stazione di servizio soprattutto utilizzata dai camionisti, con tutti i generi per la sussistenza di base. Costeggiamo le torride e assetate Chocolate Mountains con i loro giacimenti d’oro, attraversiamo Palm Desert e Palm Spring, posti dall’aspetto fortemente “costruito” nel deserto, noti per le cliniche di chirurgia estetica e anche, fortunatamente, per un festival jazz, e finalmente arriviamo a Los Angeles. L’enorme città degli angeli, come ci spiega Maria, è composta da tante piccole cittadine, ognuna con un proprio sistema giuridico, e di cui quasi la metà è abitata da immigrati di origine latina. Fondata alla fine del 1700, è caratterizzata da un clima stabile e primaverile per tutto l’anno. Ha due università, tre grandi musei (non vedremo niente di tutto questo) e soprattutto ha una fila ininterrotta di automobili che l’attraversano in continuazione. Questo nonostante ci sia il divieto, per le auto, di viaggiare con una sola persona all’interno. Non si vedono moto, solo qualche raro scooter considerato un oggetto particolare. Los Angeles, paragonata all’efficiente New York, è detta LaLa Land: qui è possibile trovare un lavoro al mattino e perderlo la sera, essere assunti e scoprire che l’azienda non esiste …. Ma chi ci abita evidentemente è abituato, non si perde d’animo e va avanti tranquillamente, e piuttosto bene visto che quasi tutte le case hanno la piscina!
La nostra prima sosta è nel nucleo da cui è cominciato tutto, l’angolo spagnolo con la casa più vecchia della città e la piccola chiesa di Nuestra Señora de Los Angeles, dove c’è anche la piccola statua di un Gesù Bambino con il sombrero. Siamo nella storica Olvera Street. Intorno, tante bancarelle colorate dove si vendono i soliti oggetti per i turisti ma anche piccole chitarre e altri strumenti musicali. A pochi passi da questo angolo che non ha niente di grandioso c’è la bellissima e imponente Union Station.
Arrivando, la strada si allarga, l’attraversamento pedonale è pavimentato in modo fantasioso, e le palme svettano verso un cielo azzurrissimo. L’interno della stazione ha uno stile che si chiama Streamline e ricorda molto l’Art Deco: legno e radica usato morbidamente anche su pareti e soffitti, austere e accoglienti poltrone, vetri colorati. Anche gli spazi esterni sono curati e in sintonia.
La prossima tappa è la straordinaria Disney Hall, il progetto più grandioso fin’ora realizzato dall’architetto Frank Gehry: certo sarebbe bello poterne apprezzare anche gli interni e la sofisticata acustica, in quanto è la sede della Filarmonica di Los Angeles, noi ci limitiamo a visitarla esternamente, percorrendo tutti gli spazi delimitati dalle pareti arrotondate in alluminio e acciaio. Anche questo in Europa non c’è, e anche qui è difficile descrivere l’esperienza, estremamente divertente, di girovagare all’interno di un’opera d’arte. Questo teatro è stato pensato e voluto dalla moglie di Walt Disney, Lillian, che si è adoperata per trovare sponsor e raccogliere i fondi necessari a costruirlo. Ora, in uno spazio aperto all’interno della costruzione, c’è una fontana (di dubbio gusto!) e una pavimentazione con inciso i nomi di tutti i benefattori che hanno permesso di arrivare al risultato.
Poco lontano dalla Disney Hall ci fermiamo davanti alla “Peace on Earth Sculpture Fountain”, poi facciamo un giro veloce del centro finanziario per avviarci verso l’albergo, a Beverly Hills. Alla sera andiamo verso gli Universal Studios (dove non entriamo) ma facciamo un giro nei numerosi e divertenti negozi. Purtroppo ci sorprende una serata particolarmente fredda, e noi non siamo attrezzati, non vediamo l’ora di tornare al chiuso …
13 agosto – Stamattina visitiamo le famose località di Beverly Hills e Hollywood, che viste dal vivo perdono un po’ della loro aura leggendaria. Comunque, Beverly Hills è un susseguirsi di ville e villette circondate da giardini e parchi, tutto molto ben curato e ben tenuto, ma è chiaro che le super case degli attori, ammesso che ci siano, dalla strada non si vedono. Anche qui si conferma la sensazione che queste persone non si spostino a piedi, perché in giro non c’è nessuno. Ci fermiamo all’hotel dove è stato girato Pretty Woman e vorremmo entrare a visitarlo, ma non ce lo permettono perché stanno girando un altro film, infatti fuori c’è tutta l’attrezzatura. Percorriamo il Sunset Boulevard e raggiungiamo la collina su cui sorge Hollywood. Qui ci sono gli storici teatri, El Capitan dove si proiettano in anteprima i film per bambini, il vecchio teatro dove una volta si teneva la cerimonia degli Oscar, ci sono le stelle nella Walk of Fame.
Ma le cose divertenti sono altre, per esempio gli attori che impersonano personaggi famosi veri o finti e che si fanno fotografare in cambio di qualche moneta, o le impronte delle mani e dei piedi di altri famosi personaggi del cinema (anche italiani) dove ci divertiamo a misurare le nostre.
Ci riposiamo su una verandina arredata con dei bellissimi tavolini colorati, e vediamo che il pavimento riporta brevissime storie di chi ha tentato qui la fortuna nel mondo dello spettacolo, e infine vediamo, molto ma molto lontano, però esiste veramente! la scritta HOLLYWOOD posata sulla collina davanti a noi. Finiamo la mattinata con un’altra passeggiata nella zona shopping & fun vicino agli Universal Studios: ora non fa freddo e possiamo divertirci tra negozi colorati, richiami al mondo del cinema, esperienze estreme come il volo a corpo libero, la piega sulla moto, fino al pranzo da Bubba Gamp.
Al pomeriggio si va al mare: si potrebbe dire che il panorama dovrebbe assomigliare a quello di qualunque altro luogo costiero, ma non è così. Intanto siamo davanti all’oceano Pacifico, non per nulla il più grande, e ogni località che visitiamo ha caratteristiche particolari. La prima tappa è Malibu, spiaggia elitaria, paradiso dei surfisti (non dei bagnanti) che occupa il Topanga Canyon. Le case sono nascoste all’interno dei canyon naturali, tanto che, come ci spiega Maria, quando piove molto forte questi spazi si riempiono d’acqua e diventano impraticabili. La spiaggia di Malibu è lunga ma piuttosto stretta, e nonostante la fama e il nome esotico, l’impressione non è quella di un posto di lusso, anzi.
Proseguiamo per Santa Monica, forse più popolare e sicuramente più simpatica: la spiaggia di sabbia finissima è enorme, molto affollata ma, grazie alle dimensioni, facilmente praticabile. A margine c’è una bella pista per le biciclette, i rollerblade e gli skateboard. Qui la gente si tuffa senza paura, e io non resisto a mettere almeno i piedi nell’acqua, per poter dire che mi sono bagnata nel Pacifico!
Proseguiamo per Venice Beach, luogo un po’ hippy frequentato dalle persone più disparate. Sulla spiaggia, anche qui molto bella, c’è molta gente che fa sport. In giro c’è una gran folla di persone che passeggia, e si respira un’aria di grande rilassatezza e vacanza. Le case hanno tutte l’aria di essere molto e ben vissute, L’ultima tappa costiera è Marina dl Rey, che ha un bel porticciolo turistico. Ci sono bellissime barche ormeggiate, di tutte le dimensioni, e molte di quelle più grandi sono a disposizione per cocktail, cene: insomma in barca ma non per mare!
Passeggiando incontriamo una pacifica colonia di pellicani. Qui assistiamo al tramonto del sole, che corrisponde all’ultima nostra serata in California, almeno per questa volta! Torniamo all’hotel, facciamo un po’ di spesa e ceniamo mestamente in piscina, in compagnia di Maria e pochi altri compagni di viaggio.
14 agosto
si torna …
O Grande Spirito,
La cui voce sento nel vento e il cui respiro dà vita a tutto il mondo,
Ascoltami! Io sono piccolo e debole. Ho bisogno della tua forza e della tua saggezza.
Fa’ che possa camminare nella bellezza e che i miei occhi colgano sempre il rosso e il purpureo del tramonto.
Fa’ che le mie mani rispettino le cose che tu hai creato e che le mie orecchie siano tese ad udire la tua voce.
Rendimi saggio, che io possa comprendere le cose che tu hai insegnato al mio popolo
Fammi cogliere insegnamenti che tu hai inciso su ogni foglia e su ogni roccia
Io cerco forza, non per essere più grande del mio fratello, ma per combattere il mio più grande nemico, me stesso
Fa’ che io sia sempre pronto a venire date con mani pulite e sguardo diritto, così quando la vita scolorirà come scolorisce il tramonto, il mio spirito possa avvicinarsi senza vergogna.
Mitakuye-Oyasin
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